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Giugno 2007Sincromie -
soggettività cromatiche del BIANCO di Francesca Jacona
Tra le figure e lo spazio-luce che le contorna, dipinti e
grafiche di Francesca Jacona hanno un 'terzo incluso' e
includente nel colore che, in primo piano e in 'prima
persona', definisce, senza fratture o scosse
nell'articolarlo, il costrutto visivo e la sintassi cui
ubbidisce, più che trovare un principio di
organizzazione nel contesto implicito da cui emergono gli
elementi che concorrono a fissarne di volta in volta il
carattere.
Non sorprende che gli spazi in cui sono ritagliati i
soggetti pittorici o segnici siano chiusi o che essi
alludano a una clausura fisica o postulino una condizione
drasticamente delimitata, di reclusione forzata e scissa
dal contesto e da sé.
Lo vediamo nelle serie intitolate, rispettivamente,
"La casa della scimmie" e "Gorilla",
dove diviene evidente una sorta di antagonismo fra lo
spazio che isola e il segno che, nelle sue versioni
diversamente scandite, al contesto in cui figura pone
solo ostacoli, obiezioni, le domande lasciate cadere in
un 'rumore bianco' che non ammette alcuna distanza, né
fisica né critica. Il colore sigla il salto nel vuoto,
il salto nel buio che non è concesso dallo spazio in cui
connettere o modulare quel silenzio in qualcosa di
dicibile nella distanza che restituirebbe una lingua, se
non una sceneggiatura; ovvero dimensioni e proporzioni,
all'urlo o all'aria che ne è lacerata o al silenzio che
la ingorga.
Nessun dialogo è possibile. Nessuna sfinge ci rivolgerà
la parola.
Inciso con maggior durezza della pasta che modella, del
contenuto materico che recinge, un segno reticente e
aggressivo, vulnerato quanto acerrimo, sembra voler
sfuggire al profilo che traccia e opporre resistenza alle
incursioni dello sguardo, filtrandolo per accedere a un
mondo evocato tramite una profondità cui nulla fa velo e
che non fa da specchio al nostro senso della distanza da
un preciso meridiano del visibile che, però, rimane
sigillata da quel diaframma, come se tutto aspettasse di
ridursi a cornice.
E' impossibile per noi, altrimenti non ne saremmo
esclusi, individuare il luogo, riportarlo a un contesto,
recintarlo per assegnare alle figure un ruolo (dopotutto,
mentre osserviamo quelle figurazioni, abbiamo difficoltà
a farlo per noi stessi), ricostruire una topografia
declinata per enigmi visivi nella scena di un dramma che
non permette alcuna schematizzazione.
La luce ne dissimula i confini, l'ombra ne ispessisce le
trame, il bianco ne coagula il vuoto, in cui l'immagine
si sfoca e sfuma, si sfilaccia, si sfalda.
Scene rubate a un teatro delle ombre, a una lotta con le
ombre che la figura ha perduto, tanto che una luce ne
dissolverebbe in arroventati bagliori la sagoma. Nessun
atto relaziona queste avulse parvenze al vuoto in cui
sbiadiscono. Quel bianco che le esclude ne fa erme gelose
di un mondo che è loro negato.
Ciò che appare, nella sua opacità di irriducibile
icona, esprime solo la luminosità diafana del bianco,
come lo spazio circoscritto che inizia oltre le figure e
il cui limite di chiusura è nella superficie del
dipinto, dalla parte dell'osservatore.
C'è più spazio dall'altra parte dello schermo che da
dove questi si pone. Là ci siamo noi. Là vige una legge
cui i segni qui operanti riluttano.
Noi ne ricalchiamo i percorsi, ma essi non ci
appartengono e si perdono nell'aria, dove non li
riconosceremo più. Nel vuoto della profondità, quando
appare (ci si spalanca ma senza vertigini) l'abisso, il
bianco segna la traccia della perdita che non potrà
essere sanata e fa di quell'estraneità la sigla di una
condizione o di una rassomiglianza.
Rocco Giudice
Dicembre 2004
I lavori ad olio e ad acrilico che
Francesca Jacona presenta, approfondiscono temi da sempre
al centro dei suoi interessi. Le novità sono tante e
notevoli. Rispetto ad altri tempi in cui prevalevano
scelte più astratte o naturalistiche (l'artista si
sposta con elegante semplicità dall'una all'altra di
queste due possibilità espressive), Francesca Jacona
sembra ora voler spingere la sua pittura nella direzione
di un'inchiesta etologica o evoluzionistica. Quindi
presenta i dati, figure in un interno, nella essenziale
incompletezza che giustifica ogni inchiesta e da essi
trae fuori delle domande. Così si spiega l'alone di
incertezza che circonda i personaggi, l'indefinitezza che
caratterizza la loro struttura fisico-somatica e i loro
atteggiamenti. L'artista non stabilisce a che specie
biologica essi potrebbero appartenere: a volte sembrano
chiaramente gorilla o uomini ma il più delle volte si
tratta solo di imprecise sagome antropomorfiche,
collocabili in uno stadio dell'evoluzione a mezza via fra
uomo e primate. Distinguendo con sottile abilità i
tratti che possono essere segnati sulla tela da quelli
che non conviene rendere palesi, fermando il movimento
prima che si concluda in un gesto esplicito, l'artista ci
trasmette profondi dubbi circa l'identità e attività
dei personaggi.
Questi si mescolano fra loro in una promiscuità che ci
rammenta quanto siano mobili e penetrabili i confini che
ogni gruppo sociale traccia a propria difesa. Manifestano
una socialità in bilico fra aggressività e gioco, si
arrampicano su funi, si librano su ponteggi o architravi,
si fronteggiano, si affollano verso immaginarie vie di
fuga. A volte sembrano perfino fare musica. In alcuni
dipinti, le figure più grandi si rasserenano in un
riposo o in una meditazione che comunque restano
provvisori e sospesi.
I personaggi agiscono in un loft o in un magazzino
semivuoto, qualcosa, quindi, che è stato dismesso,
abbandonato e da loro recuperato per usi nuovi e casuali.
A volte l'azione è contemplata dall'esterno, da lontano,
attraverso grandi finestre dai vetri opachi. Altre volte
i dipinti rappresentano l'ambiente privo dei personaggi,
ridotto ad astrazione spaziale o geometrica. E tuttavia,
svuotato della loro disordinata vitalità, esso sembra
comunque agitato da perturbazioni interne, solcato da
tensioni esplosive.
E' evidente che l'artista non vuole dire chi siano i suoi
personaggi. Tiene aperte le sue opzioni, rinuncia a
narrare una vicenda, ci offre soltanto episodi che
incorniciano l'elusività delle figure e delle condizioni
instabili che ha profilato. E' questa elusività degli
individui, uomini e primati, la vera protagonista
dell'inchiesta pittorica di Francesca Jacona.
Tutto ciò ha una logica e si inscrive nel percorso
analitico che la pittrice ha seguito in questi anni. Ella
non ha proiettato un linguaggio realistico verso un
significato elevato che vorrebbe ricreare la natura e la
realtà. Piuttosto ha provato, come un ricercatore, a
decifrare ciò che sarebbe a tutti visibile se non fosse
occultato dalla confusione, nella mente e nelle cose. E a
ciò può bene servire l'astrazione, prima dalla forma e
adesso dal significato, che Francesca Jacona ha praticato
in diversi stadi della sua carriera. In passato, ha
disegnato cumuli di automobili rottamate o elementi
sfuggenti (rappresentano territori?), allungandone le
forme fino al limite della loro elasticità, selezionando
speciali prospettive e condizioni di luce per valorizzare
le loro potenzialità di esistenza. Oggi la propone nei
gesti enigmatici dei suoi bipedi eretti.
Senza appagarsi di soluzioni e definizioni immediate,
sollecitate in egual misura dall'enfasi post-idealista e
dalle esigenze del mercato, l'arte si volge in ricerca,
inchiesta informata da tecniche espressive ed euristiche,
elaborazione sperimentale dei significati nel tempo.
Anche perché, diversamente dalla scienza, l'arte ha il
privilegio di non dover provare nessuna tesi o ipotesi.
"Tutte le opere d'arte e l'arte complessivamente -
soggiunge Theodor Adorno - sono enigmi [...] dicono
qualcosa che nascondono con lo stesso 'flatus vocis'.
[...] Se un'opera si apre completamente allora si attinge
la sua conformazione interrogativa ed essa costringe alla
riflessione; quindi si allontana per assalire poi di
sorpresa una seconda volta colui che si sente sicuro del
fatto suo con un "che cosa è questo?" [...] Le
opere d'arte contengono potenzialmente la soluzione, ma
questa non è posta obbiettivamente. L'enigma non è
risolubile, solo la sua conformazione è
decifrabile".
Giovanni Camardi
Professore di Filosofia della Scienza
Università di Catania
Febbraio 1995
Francesca Jacona, pittrice
dell'inconscio, del lato animale. Indubbiamente nei suoi
ritratti oscuri di malati psichici sono presenti
sentimenti atavici che prendono in considerazione la fase
primordiale dell'uomo ominide.
L'età dell'uomo animale, quando ancora aveva la
possibilità di cibarsi di bacche e frutti senza
esercitare violenza sugli altri. Francesca esprime questa
fase con padronanza dei mezzi che in qualche misura pone
in uno stato di piacevole arrendevolezza.
L'insieme viene manifestato senza la minima forzatura,
coercizione.
Gli esseri - alienati - fissi, o in perpetuo movimento,
assumono un atteggiamento di profondo malessere, non
quantificabile; a tratti non sembrano neppure umani per
quanto lo siano a fondo.
La gran parte, optando per un mondo individuale è
schizzata come un dardo fuori dal nostro, quello
considerato "sano", e i sani a loro volta li
hanno allontanati, provando timore e orrore nei confronti
del fratello malato, diverso. Atteggiamento,
quest'ultimo, tipicamente infantile. Capire chi abbia
effettivamente ragione è compito assai arduo. L'indagine
viene in questo caso affrontata dall'artista a viso
aperto.
Il gorilla d'altronde è l'altra parte dell'essere
animale che vive in noi, come l'alieno in stretta
simbiosi con lalbero da cui pare cibarsi di linfa
essenziale: gli sprovveduti possono trarre da tutto ciò
teorie imperfette.
Da i " KHANI SCIOLTI " di Ferruccio Massimi
EURASIA
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