Ho deciso di inserire questi bozzetti nel sito perché disegnare, dipingere, è un’esperienza di vita.
E’ una esperienza che accompagna la vita, la racconta e la indaga.
Per me l’arte è uno strumento di conoscenza che interroga là dove le parole o la logica razionale e i trattati di scienza lasciano uno spazio vuoto.
Molti misteri, anche se spiegati, lasciano insoddisfatti. L’ordine non è della vita e a volte solo un tratto di matita o una musica arrivano a catturare l’incoerenza, l’anacronismo, i contrasti che ci circondano ed a comporli in una magica sintesi, che rivela senza nulla spiegare.
Amo questa esperienza. Perché una situazione, una pianta, un volto fermati in un disegno sono una testimonianza, esistono per sempre. Momenti di vita catturati nella confusione, restituiti alla conoscenza del mondo.
Questa serie di disegni nasce da una domanda: cosa è la follia?
Cos’è quel che chiamiamo malattia mentale?
L’interrogativo mi spaventava e mi affascinava insieme, in fondo mi domandavo cos’è, dove va, dove può perdersi la mente di un uomo. Non m’interessava la patologia né la sociologia del fatto, ma il lato poetico ed esistenziale di questo strano perdersi. Perdersi dove?
Con questa domanda e con il mio quaderno di schizzi sono andata a Santa Maria della Pietà.
Allora l’ospedale mentale era in semiapertura: il momento di passaggio nel quale per legge i malati di mente venivano liberati. Mi sono trovata in un grande giardino, un mondo verde nel quale la gente andava e veniva, girava, sedeva sulle panchine. C’era un grande silenzio.
Con il segno del carboncino ho seguito questo andirivieni, di ogni persona non potevo che ricalcare l’aspetto esteriore, ma i gesti le espressioni e le posture parlavano dei percorsi delle menti.
Disegnando ho parlato con i miei soggetti che mi hanno raccontato storie dove l’invenzione si innestava sulla realtà. Favole strane, quasi tutte logiche anche nell’esaltazione.
Sull’ambizione artistica o formale nei miei disegni prevaleva il desiderio di comprendere, ogni particolare poteva essere un indizio. In più mi mantenevo un passo indietro perché la mia emozione non si sovrapponesse alle identità e alle realtà singole e non le soffocasse.
Non volevo "schizzi d’autore" ma un percorso il più possibile onesto anche a discapito della bellezza formale.
Come nel mondo dei normali ho trovato gente serena e gente agitata, persone miti o violente, eccitate o chiuse in sé stesse. A prima vista non c’era una gran differenza. Poi si avvertiva un tempo dilatato, come nei giardini d’infanzia.
La forma diviene psicologia, così mi ha colpito che un malato totalmente sigillato in se stesso si appoggiasse ad un albero capitozzato o un altro gentile o pensoso ad una pianta florida.
O come la forma di un uomo con gravi handicap fisici somigliasse a quella di una pianta grassa malata che avevo disegnato all’Orto Botanico.
Non ho trovato una risposta alla domanda iniziale, ma un insieme di identità che ponevano nuovi interrogativi.
Così ho potuto solo contemplare e seguire nei miei tratti di carboncino la molteplicità e la varietà delle manifestazioni della vita anche in quel luogo, cercando di lasciarla libera di esprimersi. Preconcetti ed immagini fisse sono cadute, ho capito che non esiste "la follia", ma persone ognuna col suo mondo che per caso inciampano.
Per noi vanno fuori strada ma loro seguono comunque un percorso, forse buffo o tortuoso, che le racconta.
Ho avuto l’opportunità di seguirle e di inseguirle nei miei disegni e di stare in loro compagnia e ho pensato di inserire nel sito queste che non sono opere complete, ma solo studi iniziali, perché anche altri potessero fare questa esperienza.
Vorrei concludere con la risposta che mi ha dato uno dei miei soggetti, che si diceva figlio di Madame de Pompadour.
-Perché- gli ho chiesto -te ne vai tanto lontano nel tempo, perché non torni nella nostra epoca?-
-Restateci voi nel vostro tempo- mi ha risposto -io lì non ho nessuno che mi vuole bene e sono libero di andare dove voglio-